31.12.05

Ciò che rimane

Non è facile ricordare un anno per immagini. Intanto bisogna considerare che uno non porta sempre appresso la macchina fotografica, e tutto sommato è meglio così. Infatti la mania del fermare una sensazione con una foto, mania imperante con l'avvento delle macchinette digitali, se portata all'eccesso riesce a rovinare, più che immortalare, delle situazioni perfette proprio per la loro fragile provvisorietà. I momenti più belli della mia vita non li ho mai fotografati, qualcosa vorrà pur dire. Una foto ricordo, per quanto poetica, è sempre almeno in parte cronaca di vita, e quindi conserva e conserverà sempre un legame con la realtà. Mi viene in mente una frase di Simone Weil, da L'ombra e la grazia.

Ciò che è reale nella percezione e la distingue dal sogno, non è la serie delle sensazioni, bensì la necessità involta in quelle sensazioni. « Perché queste cose e non altre? » « È così »

Il ricordo invece, col passare degli anni, può perdere magari non tutto, ma molto del contatto con la realtà che l'ha originato, fino a diventare qualcos'altro. E così spesso se provo a pensare a una ragazza che ho amato e che non vedo da tempo, riesco a immaginarla bella come una dea, nuda di una purezza virginale, sensuale come il peccato. Se invece guardo una sua foto, posso invece accorgermi di una smorfia che mi ricorda il giorno in cui litigammo, o il giorno in cui mi disse addio. Posso ricordarmi di quanto fu umiliante un'attesa, o un'insistenza da parte mia. O posso pensare al momento in cui, guardandola, capii che il mondo aveva smesso di girare intorno a lei. Le foto vivono di questo scarto tra l'immaginazione che evocano e la realtà da cui hanno avuto origine, senza avere né la perfezione dell'una, né la crudezza dell'altra. Ma pur nella negazione della loro perfettibilità, così terrena, posseggono spesso l'intrinseca bellezza dell'attimo che sfugge. E spesso ti ritrovi ad essere felice che ci sia ancora quel brandello di realtà che ti lega a un ricordo lontano, che ti fa credere che è tutto vero.

Per questi e per molti altri motivi oggi, mentre riordinavo le foto di quest'anno, ne ho scelte 10 per rappresentare il mio 2005. Le ho divise in categorie, forse per aiutarmi a decidere quali escludere e quali no. E iniziando per gioco, ad ognuna ho associato una frase tratta dai libri che mi sono piaciuti di più quest'anno.


Amicizia


Quanti giovani talenti confinati in una soffitta languiscono e muoiono per mancanza di un amico, di una donna che li consoli, in mezzo a milioni di esseri, alla presenza di una folla che è sazia di oro e si annoia.

Honoré de Balzac, La pelle di zigrino


Sul divano del mio vecchio appartamento torinese : io scrivo un sms con aria annoiata
e Michele prende appunti con la penna luminosa sulle canzoni
da includere in una compilation che non finiremo mai...


Diego in posa hitchcockiana, nella sua tenuta invernale antifreddo.



Paesaggi

Élisa lottò contro quella oscurità morta, cercò di respingere quella notte, evocò con tutte le sue forze qualche immagine capace di rassicurarla. Un prato fiorito in primavera... una strada di campagna dove passano gli operai, fischiando e cantando in una giornata tutta azzurra... una finestra aperta sull'estate trionfante... La vita...
Un soffio vivente le sfiorò la fronte, una sensazione dolcissima pervase il suo corpo. Sentì, intatta, la speranza che teneva celata nel profondo dell'anima. Si riaddormentò, con il cuore proteso verso una felicità possibile.

Madeleine Bourdouxhe, La donna di Gilles


Le dolci e ospitali colline di Colle Umberto (Treviso).


Il bellissimo tramonto della città color ocra di Roussillon, in Provenza.



Malinconia

Dobbiamo dire: « Purtroppo », o dobbiamo dire: « Fortunatamente il nostro dolore non ha lunga durata? » Io parlo del dolore assai profondo, di quello che attinge alle fonti della vita e che s'unisce tanto strettamente al caro essere perduto, che non lo considera più perduto e adempie per tutta la vita una missione, dedicandosi alla sua immagine, finché i limiti, scomparsi per lui, non siano scomparsi anche per noi. In verità gli uomini buoni non smettono mai tale missione, ma il dolore non è più quello di prima. Nuove, estranee immagini vi sono intromesse: apprendiamo che tutte le cose terrene sono caduche, perfino il nostro dolore, e dobbiamo quindi dire: « Purtroppo il nostro dolore non ha lunga durata! »

Friedrich de la Motte Fouqué, Ondina


Un particolare del cimitero degli Inglesi, a Roma.


Un punto - che mai potrò dimenticare - del cancello che circonda il Colle Palatino, a Roma.



Ricordi

Scopre di non saper niente di lei, né il nome, né l'indirizzo, né ciò che fa in questa città in cui lo ha incontrato. Lei dice: è troppo tardi adesso per saperlo, saperlo o no sarebbe uguale. Dice: « Sono ormai come voi, alla fine di una lunga e misteriosa sofferenza di cui non so la ragione ».

Marguerite Duras, Occhi blu capelli neri


Il pesciolino Nemo che sta sopra il mio monitor.
Si sono perse invece le tracce del pupazzo di Dory, chissà dov'è finito...


Pingu e la scarpetta di Cenerentola.
L'immagine con cui si chiuse il mio vecchio blog, e una ricerca vana.



Ciò che rimane

Si ha tutto quello che si vuole, ma non si ha niente se non lo si vuole. Io non posso volere, non posso nemmeno desiderare. Per esempio, tutte le donne che sono qui, non posso desiderarle, mi fanno paura, paura. Davanti alle donne ho la stessa paura che al fronte, durante la guerra.

Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco Fatuo


Nelle vesti di testimone di nozze del mio amico Fabio.
Da notare la bandiera cubana sullo sfondo.


In vacanza con Diego (dietro l'obiettivo) e Martina sul ponte di Avignone.



In un anno intero, anche se non ho risolto i problemi della mia vita, oggi non sono riuscito a trovare nulla di negativo. Ho conosciuto tante persone, e spero di non averne persa per strada neppure una. Non ho mai pianto, mi sono commosso, sono stato felice... non certo per merito mio, ma di chi ho avuto vicino. E ogni volta che per qualche motivo sono depresso, o triste, vado a rileggere un vecchio sms che mi ha mandato Diego, il 19 luglio scorso: « L'unica istituzione sicura è la morte. Quando torni in Friuli? ». Se ho imparato qualcosa, quest'anno, è che dovunque c'è una persona che mi vuole bene, mi sento a casa. E non è una scoperta da poco...

25.12.05

Santa Claus is coming to town

Il periodo natalizio, che per qualcuno si addice alle riflessioni più intime, è per gli animi inclini all'ascesi e alla meditazione il momento in cui il pensiero di sé lascia il posto a una vocazione ecumenica, che vorrebbe farsi carico dei problemi dell'umanità intera. La quotidianità, con il suo grigio ripetersi, tiene spesso gli altri a una distanza di sicurezza. Non troppo lontani, certo, ma abbastanza per non confondermi con loro. Io ho un sacco di tempo libero e nessuno, o nessun modo con cui trascorrerlo. Altri avrebbero mille cose da fare, e mille persone con cui farle, ma non ne hanno il tempo. Strano, questo maledetto tempo appare come una di quelle risorse tanto preziose per qualcuno quanto inutili per altri, come l'acqua o l'energia elettrica. Ma qui il rapporto quasi sempre si rovescia, ed è meno felice chi ne ha tanto da non saper che farsene, di tempo. A Natale, dicevo, questa distanza si assottiglia, e tutta la gente si riversa festante per le strade, a intasare le strade e i negozi, a bere aperitivi in locali orrendi, a comprare regali, e per forza di cose te la senti più vicina. Anche io del resto giro per le strade, spendo soldi, compro un sacco di oggetti inutili. Ma è poi, quando la sera ritorno nella mia mansarda, che mi rendo conto dell'abisso che mi separa dal conoscere le persone che mi circondano. E cresce in me il desiderio di stabilire un contatto con il tizio in fuoristrada a cui ho pivettato prima mentre ero in coda al semaforo, o con quell'altro che cercava di superarmi al bancone del bar mentre ordinavo una birra, pur essendo arrivato 10 minuti dopo di me.

Non crediate sia vanagloria, o desiderio narcisistico di mettersi in mostra, di specchiarsi nel riflesso di quanto si è belli, bravi e intelligenti. In certi momenti sento di essere animato da pura, semplice filantropia. La stessa che ostento quando ad esempio suono il clacson a qualcuno che ha girato senza mettere la freccia, per scuotere in qualche modo la sua coscienza, per fargli sentire che esisto anch'io. Ma non vorrei che con questa premessa i miei gesti di avvicinamento verso gli altri sembrassero in qualche modo frutto della premeditazione, o di una capziosa benevolenza. Sono invece comportamenti assolutamente istintivi, frutto di concatenazioni di eventi imprevedibili e, in quanto tali, difficilmente ripetibili, proprio come è successo ieri sera, la vigilia di Natale.

Verso la mezzanotte ero a casa del mio amico Diego (d'ora in avanti userò questo pseudonimo per garantire il suo anonimato), e dopo aver aspettato che, come ogni anno, si svolgesse tra lui e i suoi familiari la festosa cerimonia di apertura dei regali, gli ho consegnato il mio pacchetto. Il suo sguardo di disapprovazione nell'aprirlo diceva già tutto, ma c'era come una sottile intesa tra i nostri occhi, che lo spingeva a non sottrarsi al dovere che quel regalo implicava. Il dovere di un soldato che riceve una chiamata, o un incarico importante. Non è la bramosia di medaglie a spingerlo al sacrificio di sé e dei propri affetti, ma è un'abnegazione che ha radici profonde nella cultura militare, ma soprattutto nel sentimento di appartenenza a una comunità di cui condivide appieno gli ideali più profondi. E così, come un antico cavaliere che si prepara alla battaglia, con gesti lenti e studiati che ricordavano qualche oscuro cerimoniale esoterico, ha cominciato a scartare e ad aprire ogni singolo pezzo incluso nel mio pacco regalo. Si è infilato un paio di pantaloni rossi, ha legato un cuscino alla vita con una cintura di plastica, nera, con la fibbia anch'essa di plastica, ma bianca. Ha indossato una giacca rossa, un cappello rosso, una barba finta, gli occhiali da sole, e si è trasformato in Babbo Natale.



Ancora non era chiaro, alle nostre menti di esseri umani limitati, il disegno divino che da quell'apparizione stava prendendo corpo. Ma la Provvidenza assiste gli uomini di buona volontà, e in questo caso aveva le sembianze di una bandiera americana. Una bandiera bella grande, di quelle che sventolano sui pennoni delle ambasciate, per intenderci, con tutte le 50 piccole stelle bianche a cinque punte al loro posto. L'avevo trovata quando vivevo a Torino, la scorsa primavera. Un giorno avevo notato un cartello nell'atrio della stazione di Porta Nuova, che annunciava un'asta di oggetti dimenticati sui treni. Mi segnai la data, e il giorno convenuto (ma anche i giorni seguenti) mi presentai all'appuntamento con la sorte.

Ogni giorno per una settimana una decina di persone, e ogni tanto qualche barbone, si davano appuntamento in un locale dietro la stazione, dove un banditore delle ferrovie, che si vantava d'aver partecipato come concorrente a Ok il prezzo è giusto, simpaticamente intratteneva i suoi ospiti e batteva i vari pezzi di quest'asta strampalata. Ogni tanto arrivava qualche studente, ma io di solito ero sempre il più giovane, tanto che il banditore m'aveva preso in simpatia e spesso si rivolgeva a me in tono confidenziale: "Giovane, la vogliamo prendere o no questa valigia? Magari ci trova dentro un portatile, dei libri, dei cd, e io gliela posso fare a... vediamo... vanno bene tre euro?". C'era una signora che un giorno arrivò e cominciò a prendere un oggetto dopo l'altro, fino a spendere circa 50 euro, e se ne andò piena di valigie e con una bellissima statuina d'argento che rappresentava un cavallo imbizzarrito, gliela invidai molto. C'era una specie di barbone che si era fatto convincere dal banditore a prendere una valigia per la folle cifra di 20 euro! Per riuscire a piazzarla a quel prezzo, l'impiegato delle ferrovie continuava a sbirciarci dentro, e ripeteva: "Mamma mia, qui dentro c'è un tesoro, io questa a meno di 20 euro non ve la do, e vi assicuro che ne vale dieci volte tanto!". Il vecchietto, dopo lunghi minuti di tensione e silenzio, si decise a spendere tutto ciò che aveva nel portafogli, e ci trovò dentro circa 300 cd (senza naturalmente il marchio SIAE). Doveva essere la valigia di qualche venditore ambulante, che magari l'aveva abbandonata sul treno durante qualche controllo della polizia ferroviaria. Mi avvicinai a sbirciare anch'io, capitava spesso che ci facessimo vedere l'un l'altro, per curiosità, le nostre conquiste, maledicendo una valigia che ci eravamo fatti sfuggire oppure, al contrario, contenti di non aver buttato via qualche euro prezioso, che continuava a nutrire la speranza nel grande affare che ognuno di noi, lo ammettesse o no, sognava di fare. In quella valigia c'erano decine e decine di copie del cd del Festivalbar, di Elisa, e di altri 3 o 4 titoli abbastanza commerciali. Quel poveretto non poteva farsene niente. Me la offrì a 50 euro, poi scese fino a 20, io ero giovane e magari potevo rivenderli, quei cd, ma non me la sono sentita. Gli consigliai di andare al mercato di Porta Palazzo, il sabato, e di cercare qualche marocchino a cui piazzare l'intera valigia. Ma gli dissi anche di stare attento alla polizia, quella era roba che scotta. La richiuse subito e se ne andò in fretta senza dire niente, solo un saluto nervoso. I due poliziotti della Polfer che vigilavano sull'asta avevano già cominciato a guardarlo con sospetto.
Un altro signore, sui 40 anni, poco dopo si aggiudicò un misterioso scatolone di cartone, abbastanza pesante. Non si poteva vedere prima cosa conteneva, ma si poteva sentire quanto pesava, e più una borsa era pesante e più era possibile che contenesse oggetti preziosi. In questo caso si scoprì che conteneva i costumi di una spogliarellista: parrucche dalle fogge più strane, perizomi di paillettes con i colori della bandiera brasiliana, scialli, zeppe, reggicalze, vestitini improbabili... L'uomo, deluso per l'ennesima volta, se ne andò poco dopo, abbandonando lì lo scatolone. Altri allora si avvicinarono, per vedere se c'era qualcosa di interessante, ma nessuno prese nulla. Anch'io, incuriosito, mi avvicinai, e frugando e frugando decisi di tenermi una bellissima bandiera americana e un perizoma di paillettes con gli stessi colori.


Alla fine lasciai lì il perizoma, con gli indumenti intimi non si sa mai, ma alla bandiera ormai mi ero affezionato, e la portai prima nel mio appartamento a Torino, poi a casa, dove, non sapendo che farmene, finì appesa in bagno. Mia mamma mi ha spesso domandato quale fosse il motivo per cui tenevo una bandiera americana appesa in bagno. Io ogni volta le rispondevo, laconico: "Mi concilia l'attività intestinale", e alla fine mi sono proprio convinto che sia così.



Anche a Diego è piaciuta subito, quella bandiera. Forse perché, in questi tempi di guerra, da simbolo di liberazione è diventata l'opposto e, richiamando gli opposti, ha il fascino delle cose controverse. Ricordo i racconti di mia nonna sulla liberazione. Ricordo da piccolo al cinema Rocky Balboa con la bandiera americana sulle spalle. Ricordo Robert Mitchum nel film più bello sullo sbarco in Normandia, Il giorno più lungo. Per questo non riesco, nonostante ci siano tante ottime ragioni, ad associare la mia idea di America alla violenza, all'imperialismo, al male. E la cosa che mi affascina della bandiera americana è che di volta in volta ognuno può attribuirci il suo significato, che spesso è inconciliabile con il significato ad essa attribuito da altri. Liberazione e oppressione, guerra e libertà, morte e progresso. Ma in base a che cosa, da noi, prevale l'uno o l'altro significato? Riflettevamo su questo, io e Diego, un giorno in cui la squadra della nostra città vinse una partita di calcio importante, ma questo particolare ci interessava relativamente. Con tutta la gente per le strade a festeggiare, però, l'occasione era ghiotta per avere una conferma delle nostre opinioni. Così andammo in giro in macchina ascoltando a tutto volume l'inno dei marines e sventolando dai finestrini aperti la bandiera americana al posto di quella della squadra, che sventolavano tutti gli altri. La reazione quella volta fu positiva, e la maggior parte della gente applaudiva o gridava frasi di approvazione, credo senza capire il motivo per cui stavamo festeggiando la vittoria di una squadra di calcio a quel modo. Ma fu in quel momento che ci accorgemmo che la bandiera americana, da noi, è un simbolo che ormai richiama le ideologie di chi un tempo fu suo nemico. Non richiama alla mente Robert Mitchum che sbarca sul continente per liberarlo dall'oppressore nazista, non fa pensare a Rocky Balboa e agli altri eroi che hanno contribuito al mito americano. Ora pare che faccia pensare solo a Bush, alla guerra e a Mac Donald. Così tanto è cambiata la faccia dell'America? E tutto questo rende giustizia agli ultimi 50 anni della nostra storia e della nostra cultura? Qui c'era, in nuce, la tesi che avremmo dovuto dimostrare, ma allora era troppo problematico fare delle interviste per strada, a causa del chiasso dei clacson e dell'inno dei marines a tutto volume. La questione però si è riproposta in tutta la sua attualità quando ieri sera Diego, vestito da Babbo Natale, mi ha detto: "Andiamo a casa tua a prendere la bandiera americana?". Ho subito capito cosa intendeva fare, e così siamo andati a casa mia, ho preso la bandiera e la graffettatrice per pinzargli la barba bianca che già si era rotta, e siamo andati in centro a festeggiare il Natale, ma soprattutto a cercare delle risposte concrete, in mezzo alla gente. Mi dispiaceva lasciare il mio amico da solo bardato a quel modo, ma forse era giusto così: lui era l'esca, e io prendevo appunti.



All'inizio, passando nella zona dei bar notturni più alla moda di Udine, la situazione pareva sotto controllo. Sguardi divertiti, ma comunque di tacita approvazione. Anche qualche saluto, al quale Diego, con l'andatura barcollante a causa del cuscino sulla pancia, rispondeva con degli "Oh! Oh! Oh!" gridati con voce baritonale, da Babbo Natale. Fu con l'approssimarsi dei locali dove si riunisce una non meglio precisata gioventù di sinistra (categorizzazione ultragenerica che riunisce rapper drogati, giovani alternativi, pseudo intellettuali e alcolizzati di vario genere) che iniziarono i problemi. Gente che non si reggeva in piedi ma aveva la forza di insultare una persona solo perché era vestita da Babbo Natale texano con baffi, Ray Ban e una bandiera americana sulle spalle. Gente che non capiva (e davvero non capiva!) neanche che il cuscino era finto e accusava il malcapitato di essere grasso e schifoso a causa della sua alimentazione da depravato filoamericano del sud porco sionista alleato degli israeliani (la questione israeliana, inserita nella nostra indagine, aumenta ancora di più le implicazioni-complicazioni del significato della bandiera, a tal punto che è davvero difficile non perdere il filo della matassa). La rissa è stata solo lontanamente sfiorata, comunque, ma spostandoci da un locale di sinistra a un altro, la reazione è stata la stessa. A parte qualche illuminato, che riusciva a cogliere il fatto che una persona che si veste da Babbo Natale obeso con i Ray Ban e una bandiera americana sulle spalle non lo fa sul serio o per lanciare chissà quale messaggio politico, gli altri avevano tutti un atteggiamento ostile, sfociato in numerose richieste di consegnare loro la bandiera per poterla bruciare sul posto, neanche fossimo a Baghdad! Là immagino che non sia consigliabile fare certe, pur ironiche, provocazioni, ma in una sonnolenta città di provincia del Nordest... Un arabo la cui famiglia è stata sterminata dal fosforo bianco usato dall'esercito americano può anche non cogliere che quella bandiera è solo una presa per il culo, ma un italiano mediamente istruito (si spera) deve proprio essere sprovvisto di senso dell'umorismo per scambiare un povero Babbo Natale ciccione per un guerrafondaio o un violento prevaricatore. Eppure in molti, ragazzi e ragazze (una ragazza molto fine ha chiesto a Diego la sua barba bianca per potersi pulire il culo), hanno dimostrato una tale ostilità, che quando ci siamo trovati a tirare le conclusioni della nostra indagine, alle 5 del mattino e dopo qualche montenegro di troppo, sembravamo quasi Berlusconi: "Se sono questi, i ragazzi di sinistra con cui ci si deve confrontare, siamo proprio messi male!"



L'unica consolazione era che i soggetti peggiori si sono rivelati non più di 4 o 5, ma la maggioranza silenziosa che guardava quel Babbo Natale americano di sottecchi, siamo sicuri che fosse assolutamente neutrale nei suoi confronti? E siamo sicuri che questa neutralità non fosse menefreghismo o - parola abbietta - indifferenza? Con questo interrogativo, ci siamo avviati verso la macchina. Diego, che era partito all'inizio della serata con l'entusiasmo di chi ha ben chiaro che deve difendere qualcosa, anche se non sa bene cosa, tornava a casa senza aver avuto le sue risposte. Io, il freddo e razionale uomo di scienza, ero orgoglioso di come si era difeso dalle accuse, e della fiera baldanza con cui aveva portato quel pesante fardello di libertà sulle spalle, ma non sapevo se essere più contento perché la bandiera tornava a casa sana e salva senza neanche una bruciatura di sigaretta, o più scontento perché avevo ancora una volta constatato la mia diversità e la mia incomunicabilità sia con la gente che ha una generica ideologia di destra, sia con quella che ha una generica ideologia di sinistra. Immersi nei nostri pensieri, ci siamo fermati a riflettere davanti a un cassone dell'immondizia, simbolo dei reietti e dei rifiutati tanto da essere stato più di una volta, per un crudele paradosso, l'ultima dimora di chi aveva già perso tutto. In un mondo in cui i valori e la politica servono solo per mettersi l'uno contro l'altro, è normale che i più deboli siano trattati spesso alla stregua di oggetti e non di persone, e quindi, come in un normale ciclo di produzione che non si ferma mai, possano subire anche il triste destino dell'essere buttati via senza che nessuno se ne accorga. E io, ieri notte, ero talmente stanco e avvilito che non mi ero accorto del gesto estremo tentato dal mio caro amico.



Ma la sua pancia, ingrassata enormemente a furia di hamburger, patatine e coca cola, per fortuna gli impedì di compiere quel gesto estremo.



E alla fine cadde a terra, esausto.



Mentre mi avvicinavo prontamente per soccorrerlo, con parole che non ricordo cercai di infondergli fiducia in un domani migliore, pur non credendoci neanch'io più di tanto. Il suo animo si rasserenò un poco, quando gli dissi che quella non era la sua vita, era stato solo un esperimento per capire come mai ci sono tutte queste distanze, tra giovani che vivono le stesse vite negli stessi posti. E per capire come mai ci sono così tante distanze tra noi e tutti loro. Anche se non me l'aveva fatta, intuivo però dai suoi occhi l'innocente domanda: "Ma noi allora con quali persone possiamo identificarci, a quale gruppo apparteniamo?", e nella mia ingenuità non sapevo rispondere. Mi misi a riflettere un attimo e gli dissi: "Prova a pensare a Spiderman, a Batman, a Rambo, loro sono stati spesso osteggiati dalla società a cui facevano del bene, eppure alla fine chi ha avuto ragione? Eh? Ed erano tutti americani". Non so perché dissi quest'ultima frase, visto che noi non eravamo americani. Forse perché volevo che recuperasse un po' della fierezza, della sicurezza in sé che aveva dimostrato di avere con quella bandiera sulle spalle. Lui ci pensò su, si alzò da terra e sembrò risollevato.

"Spesso i veri eroi si trovano a dover combattere da soli"

Non ricordo chi dei due le pronunciò, ma furono le ultime parole che sentii, prima di andare a dormire. Fuori dalle case brillavano le luci natalizie, e di lì a poco i bambini si sarebbero svegliati e avrebbero aperto i loro regali. E sicuramente Babbo Natale, ancora una volta, ce l'aveva fatta a consegnare tutti i regali in tempo.

12.12.05

Vuoi venire al ballo con me?

« Egli credeva che un'anima sorella
dovesse unirsi a lui;
che deperendo tristamente
essa lo aspettava ogni giorno; »

(Alexandr Puskin, dall'Eugenio Onegin)

Quando ero più giovane, lo credevo anch'io. E pensavo che, se il destino aveva già deciso per me chi fosse l'anima gemella che tanto desideravo, continuare ad aspettare era solo un inutile spreco di tempo. Se è già scritto che sia lei, ci deve pur essere un modo per saperlo in tempo utile! Uno dei miei sogni più ricorrenti (e quando dico ricorrenti, vuol dire che davvero li ho sognati più volte) era l'apparizione di una scatoletta nera che aveva un display con i led rossi, tipo quelle radiosveglie che davano in regalo con gli abbonamenti alle riviste, o nei fustini del detersivo. Armeggiandoci ogni volta in maniera diversa, il risultato era lo stesso: quella macchinetta era in grado, inserite le giuste coordinate, di far apparire sul display il nome della persona con cui avrei passato il resto della vita. Semplice, economico e funzionale, altro che oroscopi! Il problema era che il risultato non diceva anche chi fosse quella persona, diceva sempre e solo il nome. E quindi potevo solo fare la mia vita e appena mi si presentava una ragazza che, facciamo un esempio, si chiamava Chiara (mio grande amore immaginato dell'epoca) allora io drizzavo le antenne e cambiavo comportamento, perché sapevo che una Chiara, prima o poi, doveva essere. Sarebbe comodo poter fare una prima scrematura così, invece di usare criteri che sono spesso molto meno razionali di un nome, quando mi domando se una ragazza mi piace o è adatta a me. Se ho un'anima gemella che ora sta deperendo tristemente perché tardo ad arrivare, è colpa mia? Certo che se lei si affida alla mia tempestività, temo che ci incontreremo quando sarò alla soglia della pensione, se va bene.


Anche in Napoleon Dynamite i personaggi principali sono tutti alla ricerca della loro anima gemella. Ma è una ricerca confusa, sconclusionata, poco convinta. Il filone dei filmetti americani ambientati nei licei (o college che siano) ha sempre riscosso in me grandi entusiasmi. C'è il nuovo arrivato, osteggiato da tutti, che conquista la ragazza del bullo che gioca nella squadra di football della scuola, ci sono i nerds che si vendicano degli scherzi subiti elaborandone altri ancora peggiori, c'è la festa di fine anno dove non sai mai chi invitare, e alla fine le cose finiscono sempre in maniera diversa da com'erano iniziate (di solito bene). Un mondo pieno zeppo di stereotipi, e forse per questo in qualche maniera sempre coinvolgente, anche per chi come me non ha mai dovuto invitare una ragazza a un ballo di fine anno (e dio solo sa quanto avrei voluto!). Napoleon Dynamite è una summa del genere, riletto in maniera bizzarra e trasversale, pieno zeppo di inesattezze, sbavature, momenti morti, eppure nelle sue imperfezioni autenticamente giovanile. Ma soprattutto, ieri sera mi ha fatto ridere dall'inizio alla fine.

Napoleon: Ti hanno detto che c'è il ballo?
Pedro: Si.
Napoleon: Hai già conosciuto una da invitare?
Pedro: No, ma lo farò dopo la scuola.
Napoleon: Ma a chi lo chiedi...
Pedro: A quella laggiù.
Napoleon: Summer Weathly? E come pensi di convincerla?
Pedro: Forse le faccio una torta.



Napoleon: Insomma, nessuno uscirà con me.
Pedro: Non l'hai chiesto a nessuna.
Napoleon: No, a che servirebbe, non ho capacità particolari.
Pedro: Che cosa vuol dire?
Napoleon: Sai, del tipo saper usare il nunchaku, poi cacciare con l'arco, e anche fare l'hacker in rete.
Le ragazze vogliono ragazzi con grandi qualità.
Pedro: Ma tu non sei piuttosto bravo a disegnare animali, guerrieri...
Napoleon: Si, sono il migliore che ho mai conosciuto.
Pedro: Allora disegna il ritratto della ragazza che vuoi invitare e daglielo come se fosse un regalo, capito?
Napoleon: Non è una cattiva idea...



Il sentirmi sempre un po' escluso dal gruppo di quelli che si divertono, che non hanno problemi, che agiscono prima di pensare, mi ha portato a un diversa maniera di vivere e intendere i rapporti con gli altri. Non sono mai stato convinto delle mie potenzialità, sempre che ne abbia, e per questo senso di inadeguatezza o per semplice empatia ho sempre preferito le persone che sembravano avere qualcosa che non andava. Questo non mi ha salvato dalle delusioni, ma mi ha fatto capire quanto le cose più belle che possiamo trovare negli altri siano quelle che spesso non vengono messe in mostra. Perché sono cose che non ci rendiamo neanche conto di avere, finché non le tiriamo fuori spinti da qualcuno o qualcosa.


I piccoli segreti che riesco talvolta a scoprire e che rendono speciale qualcuno ai miei occhi, forse renderanno speciale anche me agli occhi di qualcun altro, un giorno o l'altro. E la mia anima gemella, invece di deperire tristemente nella mia attesa, spero che prima o poi si decida a guardarmi orgogliosa, mentre cerco a mio modo di farmi riconoscere, e trovare.

8.12.05

Esegesi di una compilation

Quando un giorno dovrò descrivere la mia giovinezza, che immagini userò? Quali parole abusate faranno eco sulle pareti della mia stanza? Parlerò di quando cantavo Let Down mentre tornavo a casa in macchina, nella notte più importante della mia vita? O dirò delle sere selvagge nell'appartamento di Via Belpoggio, a Trieste? No, forse questo no. Che insegnamento potrebbero trarre i miei figli da un padre che si dedicava ad atti di vandalismo gratuiti, ubriaco, nella stessa casa in cui abitava? Cosa potrebbero imparare da un genitore che tanti anni prima, ebbro di desiderio, non riusciva a distinguere il suo bisogno di tenerezza dalla sua fame di sesso?


Gli anni dal '96 al 2000 sono stati a tutti gli effetti quelli della mia giovinezza. A vent'anni infatti avevo trovato una ragazza, avevo la macchina, vivevo fuori casa e, risparmiando un po' sul cibo, riuscivo anche a pagarmi qualche svago. Come ad esempio il concerto dei Marlene Kuntz, la mia prima uscita insieme a lei, una sera che cambiò radicalmente la mia esistenza. Ricordo loro che suonavano e io che le sfioravo col mio corpo il maglione, poi il ritorno a casa con la mia mano sopra la sua, tenendo assieme la leva del cambio. Il bacio in macchina, quando ci siamo salutati. E io che riparto cantando Let Down...


Non avevo mai ascoltato troppo la musica italiana di allora. Ma quando lei mi aveva chiesto se mi piacevano i Marlene, avevo risposto subito: "si, non li conosco tantissimo ma quel poco che ho sentito di loro mi piace". In realtà avrei risposto lo stesso anche se avesse nominato Peppino di Capri o Tupac Shakur...
Da lì in poi, mi fece conoscere tutti i gruppi italiani che suonavano dalle nostre parti, all'epoca. I Massimo Volume, gli Ustmamò, i Disciplinatha, Umberto Palazzo, i Tre allegri Ragazzi Morti... E per la prima volta, quando entravo nelle discoteche rock tenendo di nascosto sotto la giacca una bottiglia di plastica con dentro un litro e mezzo di gin misto a pompelmo, mi sentivo davvero parte di qualcosa che stava succedendo intorno a me. Non osservavo e basta, esistevo anch'io.


Un anno, credo fosse il 1999, mentre studiavo all'università mi iscrissi a un corso per Dj organizzato da un ente di formazione locale. La mattina mi svegliavo alle 10 per andare alle lezioni, che si tenevano in due discoteche di Trieste, e imparavo a far suonare i vinili a tempo, ad avere una dizione perfetta, e altre cose del genere. A parte l'imbarazzo nelle prove da animatore (mai più!), verso la fine del corso ci fecero fare una registrazione che sarebbe andata a finire in un cd distribuito a tutte le radio. Ognuno doveva fare un intervento a scelta con una base musicale sotto. Chi puntava sulla simpatia, chi su un approccio da radio più "parlata". Io la mattina stessa buttai giù qualche appunto prima di andare al corso, e poi feci leggere ciò che avevo scritto al Dj che ci seguiva nelle registrazioni. C'era una presentazione classica, più noiosa, e la descrizione di una scena che mi era venuta in mente appena mi ero svegliato, mentre pensavo a cosa avrei potuto dire. Gli chiesi quale andasse bene, e scelse la seconda. Sulla base della versione strumentale di Broken heart degli Spiritualized, quel giorno, recitai con un po' di imbarazzo queste parole:

Un uomo, nel traffico, dentro una macchina, le luci della città.
Intorno a lui le identità si confondono.
E lui è solo un piccolo, minuscolo ingranaggio del tutto.
Non pensa a nulla, chiuso in una bolla di vetro.
Ad un tratto sente che la musica che viene dall'autoradio supera quella bolla, la oltrepassa, e comincia a pensare.
Lui la conosce quella canzone, era da allora che non la sentiva, e i ricordi si accavallano.
Quegli occhi, quella bocca, le mani che gli accarezzano la pelle.
Poi quel giorno, in cui è successo quello che non si sarebbe mai aspettato: l'addio.
Cosa avrebbe detto allora, a vedersi così, com'è adesso?
Si guarda le mani, guarda avanti, un brivido gli passa lungo la schiena.
Da quanto tempo neppure ci pensava, a quella cosa.
La canzone sta per finire e lui non si sente più forte, ma si sente meglio.
Non dimenticherà, almeno per oggi, quel momento, e non smetterà di pensarci ma
ora tutto è finito, lo speaker annuncia un'altra canzone, un'altra storia da raccontare...



Fu con un litigio ad un concerto dei Verdena che quel periodo giunse a conclusione. E allora conobbi veramente il modo in cui puoi perdere una persona che ami. Le gelosie inutili, il senso di possesso, le mille frustrazioni di un rapporto ormai incrinato, erano lo specchio di un malessere che non riuscivamo più ad arginare. Quello che un tempo ci aveva curato, si era ammalato dei nostri stessi difetti, delle nostre paure. L'amarezza che mi prese durante il capodanno del 2000, quando salutai il casellante in autostrada con un gentile "auguri di buon anno", mentre la riaccompagnavo a casa dopo che ci eravamo appena lasciati, è indescrivibile. Forse presagivo già questi anni bui, l'oscuro medioevo della mia vita che stava arrivando a fare giustizia di quegli anni vitali e selvaggi. Calava allora su di me il buio di una solitudine cercata, più che subita. Ci furono ancora, in seguito, periodi in cui il sole pareva splendere a picco sulla mia fronte, accecandomi. Ma erano solo apparizioni, oasi nel deserto, o felici rimembranze di un tempo ormai passato. Sull'alba della mia nuova vita, proprio come in questi giorni, splendeva solo un pallido, freddo sole invernale.
Ripensando a quegli anni, ho fatto un cd con le canzoni di allora che ho amato di più. In ognuna di esse oggi ritrovo esattamente ciò che avevo immaginato, quando recitavo delle parole solo in apparenza mie. Quando scrissi le sensazioni dell'uomo nella bolla di vetro, infatti, non potevo ancora conoscerle, se non forse da qualche frase letta sui libri, o sentita in un film. E solo ora mi rendo conto di quanto quelle parole fossero, profondamente, vere. Al posto dei titoli dei pezzi, scriverò le strofe che sento più mie, come tante ferite ormai rimarginate. Cicatrici di un tempo indimenticabile, forse l'unico periodo della mia vita che non vorrei rivivere, perché nulla di quel periodo cambierei da com'è stato. In fondo un corpo è abbastanza grande da contenerne a migliaia di cicatrici, piccole o grandi che siano, e questo pensiero basta da solo a farmi pensare che no, non è ancora finita...

#048 When we were young

01. sfiorarti come a caso con aria imbarazzata
02. mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata
03. ma la vita è un suicidio, l'amore un rogo
04. mi piacerebbe sai, sentirti piangere, anche una lacrima, per pochi attimi
05. il pazzo sono io, che parlo ancora di te
06. lascerò che tutto sia sospeso, fino a quando non ci rivedremo
07. ma quando io ti guardo, tutto quanto cambia
08. parola seria ma non troppo è Io
09. conoscere tutto di te, a cosa serve...
10. descrivere è impossibile, bisogna immaginare...
11. mamma chiama i bambini per farmi giocare con loro sul mare, ma riesco a fuggire
12. io non c'entro è dentro di te, con questo non c'entro è dentro di te
13. nessuno è come me, nessuno mai nessuno...
14. quasi quasi ti ho tradito e mi sono divertito
15. anche per quest'anno rinuncio al suicidio
16. sai di te cos'è che poi perderai?
17. e ormai nel tuo cuore è buio pesto
18. cercami di più e poi vedremo se in due c'è più tempo per ridere o per piangere
19. io amo lei, non gli altri uomini che ha avuto
20. è tutto quello che io ho e non è ancora finita...

10.11.05

Tre fatti apparentemente slegati

Pochi giorni fa ho visto Elizabethtown al cinema, e quando alla fine si sono accese le luci della sala e la gente ha cominciato frettolosamente a sfollare, sono rimasto seduto un po' di più del solito. Per me l'uscita dalla sala è come una specie di anticamera tra il sogno e la realtà, certe cose non me le ricorderò più così bene e allora cerco di fermare nella memoria quello che mi ha colpito, come se volessi farlo mio, perché abbia un qualche valore nelle mie esperienze personali. E questa identificazione a volte nasce spontanea, a volte richiede qualche artificio in più. Quando ho visto Spiderman 2, ad esempio, è scattata subito. I suoi poteri erano le mie potenzialità inespresse, la sua timidezza era la mia indecisione. Per Batman Begins, un altro esempio a caso, ciò non è avvenuto. Lui era buono, ma era un uomo solo. Tutti buoni motivi per ricordare molto di più Spiderman, anche se alla fine non è che come film fosse tanto superiore all'altro.
Nel caso di Elizabethtown, pur avendo parecchie cose in comune con il protagonista, non è che poi ne sia rimasto tanto colpito. Desideravo essere sì come lui, che incontra una persona meravigliosa così per caso, però sentivo che avevo più cose in comune con lei, e tra i due quella a cui sentivo più di assomigliare era lei. Non so, in passato ho sempre preferito essere io a consolare un'altra persona in un momento di difficoltà. Ho sempre fatto di tutto per cercare di fare cose indimenticabili, per riempire i vuoti delle persone a cui tenevo. Vedere lei così insistente, in quel modo buffo e un po' impacciato, mi ha ricordato tante esperienze che ho vissuto. Numeri di cellulare scritti su bigliettini, addormentarsi mentre parli al telefono con qualcuno sdraiato sul letto, quando non riesci a mettere giù ma neanche a parlare, tanto hai sonno. E poi il quaderno con i fogli pieni di appunti, foto, citazioni. Le compilation da ascoltare in macchina... Sono solo un gioco per farsi conoscere, è vero, ma a volte sono un gioco particolarmente serio, se senti che la persona a cui le indirizzi potrebbe essere davvero quella che cerchi.
Ecco, in quei 5 minuti di anticamera, alla fine del film, ho pensato che ero sempre stato più simile a lei, nella mia vita, ma che avrei voluto essere lui, una volta tanto. Cercato e desiderato da una persona che sia in grado di sorprendermi ad ogni passo. Che sia capace di farmi passare il muso con un gesto tanto dolce quanto disarmante. Che mi faccia ridere, come una bambina giocherellona, ma che non si senta in imbarazzo a mostrarsi triste o scontrosa. Che mi dia la sicurezza di essere importante. Che mi faccia sentire a casa, dovunque siamo. Una persona come me. Una persona che forse non esiste.


Oggi mi sono svegliato presto, mi sono lavato, mi sono vestito bene e sono uscito di casa prima di mezzogiorno, cosa piuttosto rara, perché volevo passare da un'agenzia interinale che, dalle cose che avevo sentito in passato, sembrava abbastanza adatta al tipo di lavoro che sto cercando. Non sono mai andato in un'agenzia interinale, un po' per sfiducia e un po' per pigrizia, ma se dovevo cominciare da una sapevo che sarebbe stata questa. Non c'era parcheggio lì vicino, ma dopo qualche giro dell'isolato ce l'ho fatta. Il numero civico non me lo ricordavo, la via era piccola e non sarebbe stato un problema trovarla.
Con il mio curriculum nella sua elegante cartellina marrone e con la mia giacca di velluto nera, cammino lungo la strada una prima volta, ma non c'è nessuna vetrina che sembri quella di un'agenzia interinale. Torno indietro controllando tutti i campanelli, ma niente, non c'è proprio traccia di un'agenzia interinale. A quel punto, sconsolato, prendo la macchina e torno a casa, apro il computer, cerco di nuovo l'indirizzo e mi appunto il numero, il 28. Riprendo la macchina, torno in centro, cerco parcheggio. Lo trovo nella stessa zona di prima, ripercorro a piedi tutta la via e mi trovo davanti al numero civico 28: Agenzia Immobiliare. Oh, cazzo, l'avranno spostata di sede, penso. Torno a casa, riapro il pc, vado non sul sito dove avevo letto quell'indirizzo, ma sul sito delle Pagine Bianche, faccio una ricerca del nome dell'agenzia nella provincia di Udine, e niente. Vedo per sicurezza a Pordenone, a Gorizia, a Trieste, e c'è. Solo quella di Udine è scomparsa, volatilizzata, sparita. Non ha cambiato sede, semplicemente non esiste più. Un ennesimo segno che mi indica che non devo trovare lavoro, che non è quella la mia strada. Diamine, e adesso?


Adesso è già quasi mezzogiorno e mezzo, e devo andare a prendere mia nipote a scuola, perché mia sorella ha un impegno con Davide, l'altro mio nipotino. Prendo la macchina, passo dall'edicola a comprare il giornale e mi avvio verso la scuola elementare Ippolito Nievo. La mia vecchia scuola elementare. Sono in anticipo, e mi metto distrattamente a leggere il giornale, mentre le mamme e i papà arrivano uno dopo l'altro, e si mettono a chiacchierare tra loro.
Ho due ricordi legati a quella scuola. Il primo è quello dell'albero col formicaio. Durante la ricreazione, spesso giocavo con i miei amici a nascondino, e uno dei posti più comodi che avevo individuato per nascondermi era dietro il grande albero, nell'angolo opposto a quello dove si faceva la conta. Uno per scoprirti doveva venire proprio fin lì, così poi bastava fare una gara di corsa e cercare di toccare il muro per primo. A volte quindi chi doveva trovare gli altri rinunciava all'albero, soprattutto se non era tanto veloce, e controllava prima altri posti dove magari era più facile vedere qualcuno da lontano. Così potevo restare dietro l'albero per minuti interi, senza che nessuno venisse a cercarmi. Arrivata la primavera, però, ogni volta che tornavo in classe avevo un tremendo prurito sulla schiena, e non capivo proprio cosa fosse. Grattavo, grattavo, e alla fine spariva da solo. Dopo qualche giorno, mi accorsi che dietro a quell'albero c'era un formicaio, e quel prurito era dovuto a delle maledette formiche rosse che mi salivano addosso e mi pungevano sulla schiena. Odiavo gli insetti, e soprattutto le formiche rosse, e quella scoperta bastò a convincermi a non tornare mai più a nascondermi là dietro. Accettai qualche penitenza in più, ma ne valeva la pena.
Il secondo ricordo, invece, è di quando persi il mio Calimero, trovato per caso in un uovo di Pasqua. Un delizioso, piccolo pupazzetto di plastica di Calimero, triste e indifeso pulcino nero diverso dagli altri che poi diventava uno splendido cigno. Ero molto affezionato al mio Calimero di plastica, sarò stato in prima o seconda elementare, e mentre ci giocavo durante la ricreazione, non ricordo più come andarono esattamente le cose, lo persi dentro a un cespuglio, credo fosse un'edera, ma un'edera che non tagliavano da mesi, forse anni, perché se ci penso la rivedo tutta aggrovigliata, quasi una foresta fatta di edera. Dovettero trascinarmi in classe con la forza, quel giorno, e poi lo ricercai ancora all'uscita, ma niente. Calimero non saltò più fuori da lì, e piano piano smisi di cercarlo, non aveva più senso ormai. Chissà dov'era finito, magari tra le grinfie di qualche topo, o rubato da qualche compagno fortunato che l'aveva trovato per caso. Ma la versione più probabile, che si faceva strada in me col tempo, era che fosse rimasto per sempre avviluppato dai rami malefici di quell'edera, per anni e anni. Prigioniero di quel groviglio di rami, foglie e insetti. Quando tornai, più di vent'anni dopo, in quel cortile, la prima cosa che notai fu che quell'edera non c'era più. Calimero era finito forse in una discarica, o nelle mani di qualche operatore ecologico. Ma ora avevo davvero la certezza che non l'avrei più ritrovato lì. Ieri poi, mentre aspettavo la piccola Francesca, mi sono accorto che anche l'albero delle formiche rosse era scomparso, per far posto ad altri alberi più giovani e più belli. Quando lei è uscita e si è messa a correre verso di me con la sua cartella sulla schiena per abbracciarmi, ho immaginato un giorno futuro in cui una bambina come lei mi saluterà dicendomi "papà!" invece di "ale!". A volte l'oggi sembra immobile, e il domani appare tanto lontano. In certi momenti invece, sembra già di viverlo, quel domani, e il passato sembra così distante...

5.11.05

Marienbad

Nei dintorni di Monaco di Baviera, esattamente nei magnifici castelli barocchi di Nymphenburg e Schleissheim, furono girati gli esterni e buona parte degli interni del film L'anno scorso a Marienbad. Specchi, mobili antichi, quadri, fontane, siepi dalle severe geometrie, tutto contribuiva a creare la sensazione che quello non fosse un luogo reale, ma un luogo dell'anima. Dove non solo lo spazio perde - appunto - di fisicità, ma in cui anche il tempo comincia a scorrere più lentamente, fin quasi a dare la sensazione di fermarsi. Ad aspettare te.
A volte, quando mi chiedo "quanto tempo è passato?", non ho mai una risposta sola. Ne ho due. Non che sappia esattamente distinguere due misure diverse, per poter dire ad esempio quale sia più veloce dell'altro. Semplicemente non sono in sincronia. Uno è il tempo che devo dividere con gli altri, il tempo delle abitudini, dei gesti meccanici, degli orologi che non si fermano mai. L'altro invece è modellato sulle mie sensazioni per te. Ora sembrano vicinissime, ora lontane secoli e secoli, quasi parte di una mia vita precedente che persiste solo in qualche rapida apparizione. Per questo è così difficile aspettarti, ogni giorno, e dirti "aspettami". Se c'era un luogo dove ci siamo incontrati, quel luogo non esiste più. Se esiste un tempo in cui ci rivedremo, è impossibile saperlo. Io dovrei essere te, e tu me. Ma l'altra sera Udine era la mia Marienbad, e tra la nebbia mi è sembrato di vederti.



E, una volta ancora, ci siamo trovati separati. E ancora una volta camminavo, solo, lungo gli stessi corridoi, attraverso le stesse sale deserte, sotto le stesse arcate, le stesse gallerie senza finestre, varcando le stesse porte, scegliendo a caso la strada nel dedalo di questi labirinti. E ancora una volta tutto era deserto, in questo palazzo immenso, tutto era vuoto. Saloni vuoti, corridoi, saloni. Porte. Porte. Saloni, sedie vuote, poltrone profonde. Gradini, gradini l'uno dopo l'altro. Bicchieri di vetro, bicchieri vuoti. Un bicchiere che cade. Pareti di vetro. Lettere, una lettera perduta. Appesi ai chiodi chiavi numerate delle porte: 309, 307, 305, 303... Lampadari, lampadari, specchiere, corridoi vuoti a perdita d'occhio. E anche il giardino, come tutto il resto, era deserto. Accadde l'anno scorso, sono dunque tanto cambiato? Oppure fingete di non riconoscermi. Un anno, di già, o forse più.


Non avevate mai l'aria di aspettarmi, ma ci ritrovavamo ad ogni svolta dei viali, dietro ad ogni cespuglio, ai piedi di ogni statua, sull'orlo di ogni fontana. Era come se in quel giardino ci fossimo stati soltanto voi ed io. Parlavamo di tutto: dei nomi delle statue della forma dei cespugli, dell'acqua delle fontane, del colore del cielo... Oppure non parlavamo affatto. Ma voi restavate sempre ad una certa distanza, come sulla soglia. Come all'ingresso di un mondo troppo oscuro, o sconosciuto.


Ascoltatemi, di quale prova avete ancora bisogno? Avevo conservato una vostra fotografia fatta un pomeriggio nel parco, qualche giorno prima della vostra partenza. Ma quando ve l'ho mostrata mi avete risposto, ancora una volta, che non era una prova. Poteva averla fatta chiunque, in qualunque momento, e dovunque. Un giardino, qualunque giardino. Sarebbe stato necessario mostrarvi tutte quelle piume bianche attorno a voi. Quel mare di piume bianche in cui il vostro corpo... Ma tutti i corpi si somigliano, e così tutte le vestaglie e le piume. Tutti gli alberghi, tutte le statue, tutti i giardini. Ma quel giardino, per me, non somigliava a nessun altro. Ogni giorno, vi ci ritrovavo.


Il parco di quell'albergo era una specie di giardino alla francese senza alberi, senza fiori, senza vegetazione alcuna. La ghiaia, la pietra, il marmo, la linea retta, vi segnavano spazi rigidi, superfici senza mistero. Sembrava a prima vista impossibile perdersi. A prima vista. Lungo quei viali rettilinei, tra statue dai gesti immobili e lastre di granito dove voi, ora, stavate già perdendovi. Per sempre. Nella notte tranquilla. Sola. Con me.


I dialoghi sono tratti dal film L'anno scorso a Marienbad.

2.11.05

E adesso che farai?

Una volta scrissi una lettera a una ragazza, che neanche conoscevo poi tanto bene, e senza badare troppo ai soliti discorsi convenzionali che si fanno appena conosci una persona, così per presentarti, le scrissi invece queste parole su un foglio di carta a quadretti, per tenere diritto il mio stampatello.

Vorrei che questo telegramma
Fosse il più bel telegramma
Di tutti i telegrammi
Che riceverai mai

E vorrei che scartando il mio telegramma
E leggendo il mio telegramma
Alla fine del telegramma
Tu ti mettessi a piangere

(Serge Gainsbourg, Overseas Telegram)


Le parlavo della mia morte immaginata, in un incidente d'auto, e dei miei genitori che l'avrebbero conosciuta attraverso la brutta copia della lettera che le stavo scrivendo. Le raccontavo del viaggio che avrebbero fatto per incontrarla, e scoprire una parte a loro sconosciuta di me attraverso di lei. Le descrissi l'imbarazzo, il dolore e la solitudine di chi ha perso qualcuno ma vuole sapere tutto, perché ogni cosa che sfugge è persa per sempre, in quei momenti. E forse, con quella lettera, le chiesi di farsi carico di un peso troppo grande.
Erano solo parole, certo. Frutto della mia fantasia, un esercizio letterario, certo. Ma dietro a quelle parole c'era la solita domanda, che mette il destino di una vita nelle mani di qualcuno a cui chiedi di piangere lacrime d'amore per te, mentre gli dici: "e adesso che farai?".